Prima del sequenziamento del DNA grazie allo Human Genome Project, gli esperti di genetica pensavano che il genoma umano, ovvero l’intero patrimonio genetico di un uomo, fosse composto da un numero di geni compreso tra 50.000 e 140.000. Sin dai primi risultati pubblicati nel 2001 sulla rivista Nature, questi numeri sono stati notevolmente ridimensionati, tanto che oggi sappiamo che i geni umani sono circa 20.500. Sappiamo anche che le caratteristiche genetiche di ciascun individuo influenzano in modo diretto e indiretto la salute, il rischio di malattia e le risposte agli alimenti introdotti con la dieta quotidiana, di conseguenza questo ridotto numero di geni potrebbe in un certo senso semplificare la ricerca dei meccanismi alla base del rapporto tra DNA e salute.
A complicare nuovamente la situazione ci hanno però pensato negli ultimi anni gli studi sul microbiota, ovvero la comunità di microrganismi (batteri, virus, funghi e protozoi) che convivono con l’uomo, colonizzando praticamente ogni parte dell’organismo, ma concentrandosi prevalentemente a livello dell’intestino. Si tratta di una popolazione composta da un numero incredibilmente elevato di microrganismi, fino a 100 trilioni (un trilione equivale a mille miliardi), che in un uomo adulto possono arrivare a pesare anche 2 chilogrammi. Si stima che per ogni cellula umana ci siano circa 10 cellule provenienti dal microbiota, ciascuna delle quali corredata di un proprio patrimonio genetico. Ecco allora che i geni di cui tenere conto quando si parla di legame DNA-salute superano di gran lunga i 20.500 identificati grazie al Progetto Genoma Umano.
L’interesse per i microrganismi che colonizzano l’uomo e per il loro impatto sulla salute è sfociato in numerosi studi e anche in un progetto internazionale nel quale si cerca di caratterizzare a livello genetico il microbiota, studiando quello che viene definito microbioma, ovvero l’insieme dei geni che derivano da questi microrganismi. Lo Human Microbiome Project è un’iniziativa dei National Institutes of Health statunitensi nata con l’obiettivo di studiare il microbioma e il suo ruolo nel rischio di malattie. I risultati non mancano, ma i punti da chiarire sono ancora molti e ad oggi non esiste una definizione di microbiota “sano” anche perché, nonostante alcune caratteristiche ricorrenti, la comunità di microrganismi presente in ciascun individuo è unica. È noto per esempio che la composizione del microbiota si stabilizza nella sua forma matura tra 1 e 3 anni di età, ma l’equilibrio che regola i rapporti numerici tra le diverse specie di microrganismi è estremamente delicato e influenzabile da innumerevoli fattori come antibiotici, malattie, stress e alimentazione. L’alimentazione ha un ruolo particolarmente importante nel determinare i “rapporti di forza” all’interno del microbiota intestinale, che costituisce la componente più numerosa di microrganismi che convivono con l’uomo. Dal canto loro, i diversi batteri presenti nell’intestino possono influenzare la digestione, l’utilizzo dei nutrienti presenti nei cibi e la sintesi di molecole fondamentali per la salute come la vitamina K o quelle del gruppo B.
Alterazioni nel microbiota intestinale si legano all’insorgenza di molte malattie non solo legate all’apparato digerente e al metabolismo: è forte l’influenza sul rischio di diabete di tipo 2, obesità, e malattie infiammatorie intestinali, ma non mancano gli effetti sulle patologie neurologiche, quelle di cuore e vasi, del sistema immunitario e dell’umore. La dieta rappresenta senza dubbio uno strumento molto potente per plasmare il microbiota cercando di favorire le specie batteriche “amiche dell’organismo” e di ostacolare la crescita di quelle nemiche della salute. Anche se, come già detto, non è ancora del tutto chiaro quale sia l’equilibrio migliore tra gli ospiti dell’intestino umano, si stanno moltiplicando gli studi per comprendere l’effetto di un determinato nutriente sul microbiota.
Si osserva per esempio che una dieta ricca di grassi saturi come quella occidentale aumenta la comunità di Bacteroides, mentre un’alimentazione a basso contenuto di tali grassi aumenta la presenza di Bifidobacterium nelle feci. Molto studiato anche l’impatto dei carboidrati sulla composizione del microbiota intestinale, con particolare attenzione all’effetto delle fibre alimentari. A livello più generale la dieta occidentale è stata associata a una riduzione dei batteri totali e in particolare di quelli considerati “buoni” (Bifidobacterium e Eubacterium), che aumentano invece in chi segue la dieta mediterranea. Cosa significhino esattamente questi cambiamenti dal punto di vista clinico non è ancora del tutto chiaro, così come non è chiaro quali siano le strategie migliori per modulare la salute agendo sul “secondo genoma”, ma le potenzialità di tale approccio sono senza dubbio enormi.
Fonti:
1. NIH. An Overview of the Human Genome Project. May 2016.
2. Mayo Clinic. Microbes: a delicate balance. Video.
3. Sidhu M, van der Poorten D. Aust Fam Physician. 2017; 46(4):206-211.
4. Singh RK, et al. J Transl Med. 2017 Apr 8; 15(1):73.