A farlo ipotizzare è una ricerca condotta dagli esperti di uno dei principali centri di ricerca sulle malattie cardiovascolari al mondo, la Cleveland Clinic. Secondo quanto è stato pubblicato su Circulation: Heart Failure, ci sarebbe uno specifico metabolita prodotto in qualche modo da batteri presenti nelle vie digerenti che appare collegato al rischio di scompenso.
Lo studio ha concentrato l’attenzione sulla fenil-acetil-glutamina, definita tecnicamente con la sigla PAG. Un incremento della disponibilità di questo sottoprodotto metabolico che si crea per l’azione del microbiota sulle proteine disgregate nell’intestino, apparirebbe correlata sia ad un aumento del rischio di sviluppare scompenso cardiaco, sia alla gravità del quadro clinico vascolare. Per comprendere la situazione, si potrebbe definire un nuovo elemento di controllo per chi è a rischio, appunto la misurazione di PAG nel sangue. Poi, attraverso una dieta mirata e l’impiego di trattamenti farmacologici specifici, si potrebbe andare ad influire direttamente sul tema.
Sia chiaro: dall’indagine americana appare che questo parametro tende ad alterarsi in specifiche forme di scompenso, ovvero nelle persone con questa patologia a frazione di eiezione conservata: questa condizione si osserva quando il muscolo tende ad irrigidirsi e non si riempie a sufficienza, con conseguente emissione di quantità limitate di sangue ed ossigeno. Il ruolo del microbiota nel determinare il quadro appare di grande significato: secondo gli esperti si tratta infatti di una sorta di “filtro” di ciò che ingeriamo, con possibili ripercussioni sulla potenzialità di sviluppare specifiche patologie. Nel caso specifico dello scompenso cardiaco, il microbiota arriverebbe a determinare un metabolita di uno specifico aminoacido, la fenilalanina, partendo dalle proteine alimentari. Quindi questi “prodotti” di scarto di queste lavorazioni da parte dei batteri intestinali andrebbero ad influire negativamente sulla cellula miocardica.
La speranza della ricerca è ora concentrata sui batteri che potrebbero entrare in gioco nel fenomeno per identificare i ceppi responsabili del fenomeno e gli enzimi che hanno un ruolo nella produzione di fenil-acetil-glutamina. L’obiettivo finale è trovare potenziali strade dietetiche in grado di influire su questo processo, con diminuzione del rischio di sviluppare malattia. Siamo ancora lontani da questa opportunità, ma la ricerca si sta muovendo su questa via.