Nel 1902 la prestigiosa rivista The Lancet pubblicò un articolo nel quale Archibald Garrod descrisse e commentò alcuni casi di alcaptonuria, una patologia genetica che coinvolge il metabolismo di due aminoacidi (fenilalanina e tirosina), utilizzando un sottotitolo emblematico per il proprio lavoro: “Studio sulla individualità chimica”. Il significato di tale espressione è ciò che oggi si studia con la cosiddetta metabolomica, ovvero le specifiche molecole presenti nei fluidi corporei come sangue o urina di ciascun individuo.
Oltre alla metabolomica, la scienza moderna si avvale di altri strumenti per studiare nei minimi dettagli le differenze a livello di proteine (proteomica) o di DNA (genomica) in diverse fasi della vita e in diverse condizioni di salute o malattia. Queste tecnologie, assieme alle osservazioni che derivano dai più classici studi clinici ed epidemiologici, hanno portato allo sviluppo della medicina di precisione, che viene cucita su misura in base alle caratteristiche individuali, e che comprende anche la nutrizione di precisione. Nutrigenetica, nutrignomica e nutriepigenetica, che studiano il legame tra dieta e DNA rappresentano secondo molti esperti il futuro della scienza dell’alimentazione e della nutrizione, anche se si tratta di discipline giovani che hanno ancora bisogno di tempo per potersi davvero integrare nella pratica clinica quotidiana. Una cosa è certa: i dati oggi disponibili sono incoraggianti e permettono di pensare a un futuro prossimo nel quale ciascuno potrà trarre i maggiori benefici dalla dieta anche in base al proprio DNA.
Ogni persona mostra una risposta specifica ai diversi nutrienti e una delle ragioni alla base di tali differenze risiede senza dubbio nel DNA. Soprattutto dopo l’annuncio del sequenziamento del genoma umano all’inizio del millennio, i ricercatori di tutto il mondo si sono cimentati nel tentativo di comprendere il complesso dialogo tra cibo e patrimonio genetico arrivando a numerose conclusioni scientificamente interessanti e con risvolti clinici importanti. L’intolleranza al lattosio è uno degli esempi più noti di come le caratteristiche genetiche influenzino le risposte al cibo: una variante genetica nel gene dell’enzima lattasi porta a una produzione insufficiente di tale molecola nell’intestino e alla successiva incapacità (o difficoltà) di digerire il lattosio, lo zucchero del latte.
Il DNA influenza anche il rischio di molte malattie tipiche dell’era moderna, ad esempio l’obesità e il diabete di tipo 2 come dimostrano numerose ricerche del settore, ma le varianti genetiche identificate spiegano solo una piccola percentuale dell’ereditarietà dei due disturbi. A spiegare tali risultati entra in gioco ancora una volta l’alimentazione che può scatenare o accelerare lo sviluppo di tali condizioni in soggetti geneticamente a rischio elevato. Per esempio, il rischio di obesità è fortemente legato alla presenza di specifiche varianti nel gene FTO e tale rischio aumenta se aumenta anche il consumo di cibi fritti. La relazione DNA-cibo non è unidirezionale: se infatti il DNA influenza la risposta al cibo, gli alimenti hanno un ruolo fondamentale nel modulare l’espressione dei geni e possono perciò diventare vere e proprie armi di prevenzione e salute.
La cosiddetta “dieta occidentale” – ricca di cereali raffinati, dolci e carne lavorata – aumenta per esempio l’espressione dei geni legati all’infiammazione, una condizione alla base di patologie croniche come diabete e cancro, mentre la dieta mediterranea ne riduce l’espressione. E c’è poi la lunghissima lista di tutte le molecole bioattive contenute nei cibi e in grado di interagire con il DNA in favore della salute: epigallocatechina gallata, resveratrolo, genisteina, curcumina e tante altre ancora in un elenco che si allunga quasi quotidianamente.
Tutte le osservazioni finora riportate fanno riflettere sull’importanza di un approccio personalizzato alla nutrizione e sul fatto che non esista una “soluzione universale” e valida per tutti quando si cerca di disegnare un regime alimentare davvero salutare. Prima di poter mettere in campo vere e proprie “diete genetiche” c’è però ancora molta strada da percorrere e gli ostacoli non mancano. Il primo e più importante è rappresentato dalla complessità del problema: la “dieta ottimale” non è mai questione di un singolo gene o dell’effetto di un singolo nutriente sul DNA, ma è il risultato di migliaia di interazioni che trasformano ciò che portiamo in tavola per permettergli di svolgere un ruolo nell’organismo e nel determinare la salute.
Non mancano poi i problemi di tipo tecnologico e sebbene oggi costi e tempi per il sequenziamento dell’intero genoma siano scesi drasticamente rispetto ai primi tentativi, la capacità di gestire, analizzare e tradurre in pratica i risultati “-omici” non è ancora del tutto soddisfacente. Ultima, ma non certo per importanza, è la difficoltà di riuscire a calcolare in modo preciso l’assunzione di nutrienti: la descrizione dei pasti da parte degli stessi pazienti coinvolti negli studi è uno dei metodi attualmente più usati nonostante i rischi di imprecisioni siano notevoli. Tra le possibili future soluzioni al problema lo studio del metaboloma, nel tentativo di identificare nuovi biomarcatori, molecole circolanti nel sangue o nelle urine (metaboliti) capaci di indicare in modo esatto quale nutriente è stato assunto.
Fonti:
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