Identificare la specie, un obiettivo fondamentale quando si parla di sicurezza e tracciabilità di alimenti che contengono parti di origine animale.
Un esempio si è avuto recentemente, con l’individuazione di carne di cavallo in alcune confezioni di lasagne surgelate, che dovevano contenere solamente carne bovina.
Oggi esistono diversi test che permettono di rilevare come e quanto l’etichettatura degli alimenti sia affidabile e grazie a questi, infatti, è possibile identificare errori di etichettatura, siano essi accidentali o deliberati.
Le analisi molecolari basate sul DNA presentano numerosi vantaggi che derivano dalla natura di questa macromolecola:
Inoltre, i suoi meccanismi di replicazione non sono in grado di rilevare e correggere possibili errori verificatisi durante la sintesi, portando all’accumulo di mutazioni in tempi molto più rapidi – circa 10 volte – di quanto non accada nel DNA del nucleo cellulare.
I mtDNA di specie diverse, quindi, tendono a presentate un elevato numero di mutazioni distintive che possono permettere di distinguere una specie dall’altra.
La maggior parte delle metodiche applicate, nel settore della tracciabilità molecolare di specie, si basa sulla PCR (Polymerase Chain Reaction, reazione polimerasica a catena) una tecnica che permette di produrre in laboratorio, in tempi rapidi, un enorme quantitativo di copie di DNA identiche alla regione bersaglio che si vuole caratterizzare.
Questa regione viene delimitata alle due estremità attraverso l’impiego di oligonucleotidi sintetici a sequenza nota, detti primer o “inneschi” e complementari al DNA originale. Nella miscela di reazione è inoltre presente la DNA polimerasi di tipo Taq, un enzima resistente alle alte temperature che è in grado di sintetizzare nuovo DNA identico a quello della regione bersaglio delimitata dagli inneschi. La potenzialità di quest’approccio è tale da permettere di ottenere, in poco più di due ore, milioni di copie della regione bersaglio.
Vi sono diverse applicazioni basate su PCR che sono state messe a punto per permettere l’identificazione di specie. Tra le più comuni vi è l’amplificazione con primer selettivi: il DNA estratto dal campione di partenza è testato utilizzando un pannello di coppie d’inneschi specie-specifiche, ognuna disegnata in modo da permettere la produzione di amplificato solo alla presenza del DNA della specie bersaglio.
Un’altra metodica di largo impiego è la PCR-RFLP (Restriction Fragment Length Polymorphisms,polimorfismi di lunghezza dei frammenti di restrizione) che si avvale della specificità degli enzimi di restrizione come strumento diagnostico.
Questi enzimi hanno la capacità di tagliare il doppio filamento del DNA in corrispondenza di brevi sequenze caratteristiche, diverse da enzima a enzima. Selezionando enzimi di restrizione capaci di riconoscere sequenze contenenti mutazioni specie-specifiche, si può identificare la specie d’origine in base alla lunghezza dei frammenti di DNA che si ottengono dopo aver sottoposto il prodotto PCR al trattamento enzimatico.
Se, oltre all’identificazione, si vuole anche quantificare il DNA di una certa specie contenuto nel campione, si può ricorrere alla PCR quantitativa. Essa sfrutta l’elevata sensibilità di sonde coniugate a molecole fluorescenti.
L’apparecchiatura utilizzata, per condurre l’amplificazione, in questo caso è dotata di un sistema di rilevamento delle emissioni fluorescenti. Le sonde sono costituite da un breve tratto di DNA sintetico a singolo filamento in grado di riconoscere e associarsi per complementarietà al DNA della specie bersaglio.
Alle estremità della sonda sono presenti due molecole fluorescenti, dette fluorofori. Poiché la sonda è corta, i due fluorofori si trovano a distanza ravvicinata e l’emissione di fluorescenza viene inibita per interferenza reciproca.
Questa situazione, però, cambia nel corso della reazione di amplificazione: la polimerasi impiegata per la PCR quantitativa è diversa da quella standard, e quando incontra la sonda posta sul DNA bersaglio la degrada in piccoli frammenti, portando alla separazione dei due fluorofori che sono ora liberi di emettere fluorescenza.
Il confronto tra l’intensità del segnale emesso da uno standard di riferimento e quello emesso dal campione permette di stimare quanto DNA della specie bersaglio fosse presente nel materiale di partenza.
Come detto in precedenza il mtDNA è normalmente presente in copie multiple in ogni cellula, ma il numero totale di copie può variare secondo il tipo di cellula.
Per questa ragione, nel caso del test con PCR quantitativa è preferibile scegliere geni presenti in singola copia nel DNA nucleare, in modo da poter ottenere stime più precise dei quantitativi del materiale genetico di partenza.
L’identificazione di specie può anche essere effettuata tramite sequenziamento diretto di una regione di DNA bersaglio. Questa tecnica, chiamata anche sequenziamento “Sanger” – dal nome di chi l’ha inventata – permette di andare a leggere, nucleotide per nucleotide, l’informazione genetica contenuta nel tratto di DNA in esame e, attraverso il confronto con banche dati genetiche, di risalire alla specie d’origine.
Se, però, nel campione di partenza sono presenti DNA di specie diverse, il metodo del sequenziamento diretto perde di efficacia, come se cercassimo di decifrare contemporaneamente il senso di più frasi di testo sovrapposte l’una all’altra.
Si può allora passare al sequenziamento con tecniche di nuova generazione, che analizzano in parallelo un elevatissimo numero di frammenti di DNA, restituendo separatamente l’informazione genetica per ognuno di essi.
A cura della Dott.ssa Licia Colli e del Prof. Paolo Ajmone-Marsan
Istituto di Zootecnica, Facoltà di Agraria
Università Cattolica del S. Cuore di Piacenza
Comitato Scientifico
Fondazione Istituto Danone