C’è un motivo in più per non stravolgere le abitudini alimentati ed offrire al corpo probiotici e prebiotici in quantità quando si viaggia verso l’Africa, l’America latina o il sud-est asiatico.
Se è vero infatti che l’assunzione di alimenti non propriamente “sani” può in qualche modo favorire l’insorgenza di sintomi a carico dell’apparato digerente, dalla diarrea fino ai dolori addominali, è altrettanto innegabile che il mutamento delle caratteristiche dei ceppi batterici del tubo digerente può comportare anche “l’entrata” di famiglie batteriche potenzialmente in grado di “importare” anche resistenze agli antibiotici.
A segnalare il rischio di questo “salto” della “dogana” che le vie digestive rappresentano è una ricerca condotta da esperti dell’Università Washington di Saint Loius e dell’Università di Maastricht, apparsa su BMC Genome Medicine. In pratica gli esperti hanno preso in esame il microbiota di quasi 200 persone sia prima che dopo un viaggio in Asia o in Africa, verificando quali mutamenti si sono realizzati dopo questi trasferimenti. Ed è emerso chiaramente che nel patrimonio della flora intestinale, al ritorno dal viaggio, si erano inseriti ceppi non solo diversi e pronti a svilupparsi, ma anche in grado di trasportare caratteristiche genetiche legate ad una potenziale resistenza agli antibiotici.
Il fenomeno non è certo raro: basti pensare che su 190 viaggiatori sono stati identificati 121 geni correlati alla resistenza batterica, alcuni dei quali individuati solo grazie ad una tecnica analitica particolarmente sofisticata ed innovativa. Tra i geni ritrovati nei viaggiatori sono stati identificati anche quelli correlati, tra l’altro, alla resistenza alle beta-lattamasi e alla colistina. Il rischio della situazione è che, attraverso un passaggio di tipo orizzontale, i geni della resistenza possano passare a potenziali commensali abituali dell’apparato digerente, arrivando quindi ad influenzare anche batteri già presenti e modificandone le possibilità di risposta ai farmaci antibatterici.
A quel punto sempre attraverso una sorta di “trasferimento orizzontale” dei geni della resistenza, questi passano attraverso un microorganismo commensale per il corpo umano e fino a raggiungere germi patogeni. E, nelle fasi successive di sviluppo, incorporano nel proprio genoma l’invisibile tratto genetico che li rende inattaccabili da un determinato antibiotico: così la loro “stirpe” conserva questa caratteristica, diventando quindi resistente all’antibioticoterapia.
La pandemia ha fatto mettere in secondo piano uno degli allarmi lanciati da tutti gli organismi deputati a tutelare la nostra salute, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità in poi: il problema della presenza di batteri resistenti agli antibiotici.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi, l’uso degli antibiotici ha portato a diminuire in misura drastica le morti per infezione batterica. Ma la guerra fra noi e i batteri è ancora in corso e alcuni di loro hanno inventato dei meccanismi di difesa, le resistenze appunto, che li rendono “vaccinati” agli antibiotici.
Queste resistenze si propagano molto velocemente fra le popolazioni batteriche (alcune specie batteriche raddoppiano il loro numero in 20 minuti). La presenza di questi batteri resistenti è anche legata a un eccesso d’uso degli antibiotici stessi. Quindi: antibiotici sì ma con giudizio!”
Commento del prof. Lorenzo Morelli, Presidente Scientifico Fondazione Istituto Danone