Cambiare il microbiota può aiutare contro le infezioni

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Negli USA, ogni anno, più di 14.000 persone muoiono per infezione da Clostridium difficile. Purtroppo fronteggiare le sue manifestazioni cliniche non è semplice, anche perché il trattamento antibiotico, a volte, non risulta efficace.

Infezione da Clostridium difficile

Peraltro, proprio una prolungata terapia con antibiotici – per consentire la guarigione da un’altra infezione – rappresenta il principale fattore di rischio per l’attacco da Clostridium difficile, che può indurre diarrea profusa e non controllabile.

Infatti, l’antibiotico-terapia tende a modificare il microbiota e, quindi, a predisporre la flora intestinale alla replicazione in massa di questi germi patogeni. Il quadro è particolarmente frequente negli ospedali, e rappresenta un’evenienza nei confronti della quale gli specialisti si trovano, anche frequentemente, a corto di soluzioni terapeutiche.

Per affrontare in maniera innovativa l’infezione, ora emerge una nuova possibilità che, però, non nasce dalla ricerca farmacologica.

Un promettente trattamento, per i casi d’infezione ricorrente da Clostridium difficile, potrebbe venire dal trapianto di feci. Tecnica che permette di “ristrutturare” il microbiota del paziente, inserendo direttamente nell’intestino la microflora di persone sane.

Quest’originale tipo di trapianto, infatti, consente di trasferire una complessa comunità di microorganismi – come batteri, miceti e anche virus – per ora non ancora ben caratterizzata.

Per questi motivi l’American Gastroenterologist Association (AGA) ha costituito un panel di ricercatori e medici specializzati nello studio del microbioma, per valutare il potenziale di questo fattore nelle cure del futuro.

Alcuni medici – ricordano gli esperti dell’AGA – procedono al trapianto fecale per trattare i casi recidivanti d’infezione da Clostridium difficile ma, questo trattamento non è ancora stato approvato per fini terapeutici dalla Food and Drugs Administration (FDA).

Nel riconoscere il ruolo della FDA per garantire la sicurezza e l’impiego appropriato di questa terapia, gli stessi specialisti americani ricordano l’importanza di poterlo eseguire, per dare risposta ai bisogni urgenti esistenti dei pazienti che contraggono l’infezione.

Per questo, la stessa AGA, insieme con altre associazioni scientifiche, sta lavorando con la FDA per definire un approccio sicuro ed efficace della terapia, che consenta di effettuare questa cura nei casi indicati.

 Il trapianto fecale

Il trapianto di feci, da un soggetto sano a uno con patologie infettive gastro-intestinali resistenti ai trattamenti antibiotici, trova la sua origine lontana nel tempo.

In Finlandia, nel settore veterinario, si affermò il concetto di competizione esclusiva per indicare l’uso di feci di polli sani per inoculare i pulcini appena dopo la schiusa, e impedire che venissero colonizzati da batteri patogeni quali le Salmonelle.

La trasposizione in clinica umana risale agli anni cinquanta, ma negli ultimissimi mesi del 2013 ha visto un vero e proprio boom con ben 53 articoli scientifici pubblicati.

La motivazione di questo interesse clinico risiede nella mancanza di efficaci presidi antibiotici, data la diffusione di ceppi poli-antibiotico resistenti. Da considerare come questi siano lavori di ricerca che richiedono cautela nella loro eventuale generalizzazione, da segnalare però – con piacere  – come gruppi di ricerca italiani sappiano costantemente essere presenti nei settori più all’avanguardia.

trapianto fecale: l’avanguardia italiana

Recentemente è stato eseguito a Roma, per la prima volta, un trapianto di microbiota intestinale. L’intervento è stato eseguito dall’equipe coordinata da Antonio Gasbarrini – responsabile dell’Unità Operativa Complessa di Medicina Interna e Gastroenterologia del Policlinico Gemelli.

Il trapianto da un donatore sano ha l’intento di ristabilire una flora batterica “sana” anche se, come precisa Antonio Gasbarrini: “Non sappiamo per quanto tempo questa flora possa colonizzare il ricevente, il trapianto di flora batterica è assolutamente una delle future terapie anti obesità e diabete resistenza. Numerosi studi condotti negli ultimi anni nel mondo, infatti, hanno dimostrato che i soggetti obesi hanno una flora batterica diversa rispetto a quella dei soggetti magri e studi, su vari modelli animali, hanno dimostrato che il trapianto della flora batterica da un animale obeso a uno magro, determina un rapido aumento di peso in quest’ultimo e viceversa”.

Il trapianto è stato compiuto su un paziente con diarrea da Clostridium difficile resistente agli antibiotici, e il donatore era un parente di primo grado in buone condizioni generali. Tutta la procedura ha seguito le regole di sicurezza e buona pratica clinica approvate dal Comitato Etico del Policlinico Gemelli.

La flora batterica intestinale si recupera da un campione fecale del ricevente. Una volta purificata, con avanzate tecniche di microbiologia, si può trasferire attraverso il sondino per colonscopia. Il ricevente ha ben tollerato il trapianto ed è ora in buone condizioni cliniche.

trapianto fecale: il ruolo dei probiotici

Se la tecnica del trapianto è ancora alle prime fasi d’utilizzo clinico, la situazione appare diversa per l’impiego dei probiotici che hanno già dimostrato un ruolo nella prevenzione della diarrea da Clostridium difficile dopo trattamento antibiotico.

Gli scienziati della Cochrane Collaboration, dopo aver preso in esame 23 diversi studi scientifici condotti sull’argomento, hanno confermato che quest’approccio è effettivamente efficace a mantenere in salute il microbiota, e quindi a preservarlo dallo sviluppo in massa di ceppi del temutissimo batterio responsabile di gravi infezioni.

Le ricerche prese in esame hanno fatto il punto sulla situazione ed hanno compreso più di 4.000 soggetti, sia in età adulta sia in quella pediatrica.

La combinazione di probiotici con antibiotici ha consentito una riduzione pari al 64% delle persone che hanno accusato diarrea, con una sostanziale sicurezza del trattamento.

Gli effetti collaterali sono stati, infatti, più frequenti nelle persone trattate con placebo rispetto a quelle che avevano assunto probiotici. Quest’osservazione conferma quanto era già emerso in un articolo pubblicato sul British Medical Journal in un’altra ampia metanalisi.

Le conclusioni, di quell’attento lavoro d’indagine scientifica, hanno dimostrato che i pazienti che assumono probiotici, hanno una possibilità inferiore del 66% di sviluppare diarrea da Clostridium difficile, in confronto alla popolazione di controllo trattata con semplice placebo o non trattata.

Fonti: American Gastroenterological Association, Ufficio stampaUniversità Cattolica Roma, British Medical Journal

A cura del prof. Lorenzo Morelli
Direttore Istituto Microbiologia
Università Cattolica del S. Cuore di Piacenza

Comitato Scientifico
Fondazione Istituto Danone

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